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A cinque anni dagli accordi di Parigi, tra promesse mancate ed effetto del COVID

Il 12 dicembre 2015, al termine della COP21 che si tenne a Parigi, centonovantacinque Paesi firmarono un accordo per fermare i cambiamenti climatici e il surriscaldamento globale. I leader politici si impegnarono a promuovere politiche capaci di non far alzare la temperatura media del Pianeta di oltre 1.5 gradi entro il 2030, limitando in particolar modo l’emissione dei gas serra.

Fu un momento storico, perché per la prima volta una platea tanto ampia e rappresentativa riconobbe politicamente la tesi scientifica dell’influenza dell’uomo sul clima e il rischio a cui stiamo andando incontro con l’innalzarsi della temperatura: ogni nazione in virtù dell’accordo deve presentare un piano, valutato periodicamente, per contrastare i cambiamenti irreversibili. Sono passati cinque anni dalla COP21 e vogliamo provare a fare il punto della situazione sui progressi fatti.

Gli scenari ad oggi non sono molto incoraggianti, tanto che secondo la maggior parte degli studi già oggi la temperatura si è alzata di almeno 1 grado in cinque anni, per alcune ricerche anche di più. Tra le varie immagini che testimoniano l’urgenza della situazione rimangono impresse la siccità, le foreste che bruciano e lo scioglimento della calotta polare. Negli Stati Uniti l’acqua sta diventando un bene assicurabile con tanto di Future sull’oro blu, a testimonianza dei timori del mercato sulle riserve idriche.

Se Wall Street agisce in questa direzione, Washington ha inferito uno dei colpi più duri agli accordi di Parigi nel quinquennio: Donald Trump, poco dopo essere stato eletto, annunciò nel 2017 di voler uscire dagli accordi di Parigi, ritenendo la transizione energetica verso le rinnovabili troppo dannosa per l’economia americana.

Uno degli effetti collaterali del COVID in questo 2020 è stato per ora il rientro degli USA, annunciato da Joe Biden, negli accordi. Effetto collaterale perché quasi tutti gli analisti politici vedono proprio nella pandemia l’elemento che ha impedito la riconferma quasi certa dei repubblicani. Il ritorno degli USA nell’accordo è una buona notizia e anche la Cina ha annunciato di voler raggiungere la neutralità carbonica, ovvero le emissioni zero, entro il 2060.

Ogni Paese deve fare la propria parte, ma ad oggi solo tre nazioni, secondo Climate Action Tracker, sono state coerenti nell’adottare piani conformi agli obiettivi di Parigi: Marocco, Costa Rica e Gambia.

Tornando alla pandemia l’UNEP, programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, ha stimato in un 7% la riduzione dei gas serra dovuta ai vari lockdown e alla riduzione della mobilità tra nazioni. Cosa significa? Che la mobilità ha un impatto limitato in termini di produzione di CO2 e a fare la differenza sono le fonti energetiche su larga scala.

Secondo Carbon Foot Print di questo passo potremmo superare i fatidici due gradi già nel 2026.

In tal senso lo slittamento della COP21 di Gaglow di un anno a causa della Pandemia non è stata una buona notizia. Una certezza però l’abbiamo: la serietà delle politiche che i governi metteranno in campo sarà fortemente influenzata anche dalla pressione dell’opinione pubblica. E non possiamo pensare che questa moral suasion sia affidata solo alle giovani generazioni, le uniche che sembrano aver capito diffusamente che il punto di non ritorno è vicino se non addirittura già superato.

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